Relazione incontro con Forum Terzo Settore dell’ 11/01/2018 presso la Curia Vescovile
Il tema della mia conversazione è orientato da un interesse di fondo, che ruota attorno alla domanda sul contributo che può dare il Forum del Terzo settore alla costruzione della comunità pontina e provinciale. Naturalmente non ho altra intenzione se non quella di offrire qualche suggestione alla discussione e al confronto. Svolgerò l’intervento in due momenti: nel primo parlerò di identità, comunità, progetto (tre concetti da intendere nella loro reciproca presupposizione e circolarità); nel secondo trarrò qualche conseguenza e applicazione per una realtà come la vostra. L’orizzonte in cui conduco la riflessione è evidentemente delineato dall’insegnamento sociale della Chiesa.
Tre termini indivisibili
La scelta del tema prende spunto da alcune considerazioni svolte nella presentazione del Messaggio del Papa per la Giornata mondiale della pace del 1° gennaio scorso. In esso stava in evidenza il fenomeno dell’immigrazione e le esigenze della accoglienza. In rapporto ad esso emergeva come questione cruciale l’identità della popolazione del nostro territorio come condizione della sua capacità di accoglienza e della sua responsabilità nei confronti degli immigrati.
Ora vorrei tornare sul punto chiedendomi perché l’identità della nostra popolazione è una questione cruciale. E trovo la risposta più immediata nel fatto che senza di essa è difficile affrontare efficacemente sfide così impegnative e coinvolgenti l’intera collettività. Siamo pertanto costretti ad ammettere che la nostra identità sociale è tutt’altro che definita, ma rimane incompiuta, qualcosa magari di desiderato, forse intravisto, ma inesorabilmente fuori dall’esperienza e dalle possibilità concrete del momento. La gente del nostro territorio risulta composita perché proveniente da una grande varietà di estrazioni regionali, se non nazionali, almeno per una buona metà della provincia, stando, se non altro, alla presenza di città di fondazione a seguito della bonifica compiuta negli anni ’30 del secolo scorso. Essa è, ad oggi, il risultato mai finito del rimescolamento di successive ondate di immigrazione dalle più diverse regioni italiane e province vicine o remote, da paesi europei ed extraeuropei. E se anche si estendesse lo sguardo a tutta la provincia, si constaterebbe che pure nei paesini o nei centri di più lunga e consolidata tradizione (da cui pure non pochi si sono trasferiti nell’agro pontino), già da tempo non esiste più la compattezza di gruppi sociali e di tradizioni quali troviamo ormai solo nella nostra immaginazione o nella memoria collettiva tradizionale della nostra società. Certamente nei centri di antica fondazione e di lunga storia ci sono tratti comuni più o meno marcati che non è difficile evidenziare, a partire dal dialetto, dallo stile dominante nei rapporti sociali, dalla pratica religiosa e dalla religiosità popolare, dalle tradizioni locali che contraddistinguono la vita associata, dai vari aspetti della cultura materiale e da altro ancora. Ma anche per questi centri avrei difficoltà a definire una identità sufficientemente coesa e condivisa come potevamo riscontrarla, per esempio, cinquant’anni fa. Anch’essi sono ormai piccoli mondi variegati.
Per qualcuno questo carattere plurale e frammentato, questa forma di aggregazione che vede giustapposti persone e gruppi diversi che non sono pervenuti a una qualche forma significativa di unificazione e di identificazione, può costituire un fenomeno normale, a cui non dare un peso negativo ma piuttosto da apprezzare positivamente. Sia chiaro che sognare un ritorno al passato o una uniformità per il futuro è del tutto estraneo alla nostra prospettiva, perché guardiamo con simpatia a ciò che siamo oggi e ci riconosciamo come realtà per tanti versi buona e promettente. Aggiungo che la pluralità e la diversità fanno parte del panorama odierno in qualsiasi campo della vita sociale e ormai nei popoli non solo dell’Occidente; e con esse è necessario, ma anche possibile, convivere. Bisogna constatare nondimeno che non ci sono state singole figure, gruppi, partiti, chiese o altro ancora che siano riusciti a diventare punto di riferimento e di identificazione per la nostra gente nel suo insieme. Anche questo non è necessariamente un male, però ci porta inevitabilmente a concludere che questo territorio non è riconoscibile per qualche tratto distintivo che ne denoti la qualità, il carattere, una espressione emergente della sua peculiarità. Presenta molte potenzialità, ha visto crescere tanta laboriosità e ricchezza, ma in maniera disordinata e confusa, così che sono cresciute anche tante contraddizioni ed è fondato il timore che le conquiste materiali raggiunte possano venire in qualche modo compromesse. Ma infine, pur con tutto ciò e riconciliandoci con la pluralità e la diversità, dobbiamo osservare che l’unità ancora possibile può essere perseguita in un contesto plurale e dispersivo quale è l’attuale, e soprattutto rimane un obiettivo necessario, e questo per la semplice ragione che non possiamo non vivere insieme e abbiamo bisogno gli uni degli altri, affinché ognuno e tutti congiuntamente possiamo condurre bene la nostra vita.
La domanda che si pone è allora: basta una unità meramente funzionale, cioè rispondente alle esigenze organizzative di una convivenza ordinata, per tenere insieme una collettività più o meno estesa, oppure ci vogliono anche delle convinzioni, delle idee, degli ideali condivisi e dei valori, in altre parole, dei motivi profondi per stare e lavorare insieme? Una tale domanda può legittimamente suscitare qualche sospetto o preoccupazione, per il timore che si voglia imporre una qualche forma di uniformità e di limitazione della libertà personale. Pertanto, a scanso di equivoci, dico subito che è lo stesso concetto di identità che va inteso correttamente. Essa infatti non ha nulla di monolitico e di statico. Sia per il singolo che per la collettività essa non può essere più considerata un dato passivamente recepito e immutabile, bensì costituisce la elaborazione personale e comune di quel patrimonio ricevuto che ci ha resi ciò che oggi siamo.
E a proposito di patrimonio, un po’ per tutta la nostra gente – sia nelle città di fondazione che nei paesi dalla storia più o meno lunga – vale che non siamo una collettività che provenga in maniera compatta da un unico ceppo culturale e da una unitaria tradizione antropologico-culturale, perché tutti siamo dentro un processo di rimescolamento incessante. Tale condizione può essere guardata oggi con meno rammarico di quanto potesse avvenire in passato, poiché ormai tende a diventare comune a tutti, se non per storia e per mobilità sociale, certo per cultura, mentalità e dinamiche delle società di oggi.
Parliamo, perciò, di identità come di qualcosa di dinamico, una sintesi di datità e di scelta. Per identità intendiamo l’insieme di principi, di valori, di convinzioni, di concezioni e di pratiche, di stili di vita e di relazioni, di espressione del proprio personale e comune mondo interiore sul piano professionale, giuridico, economico, e poi anche spirituale, religioso, artistico, ludico. Ognuno di noi è chiamato, se non costretto dalla realtà, a capire la storia e la tradizione (di famiglia, di ambiente, di formazione, di esperienze) da cui proviene, a ripensare se stesso e a scegliere ciò che vuole essere. E questo, in un percorso mai definitivamente concluso, anche se ci sono passaggi e decisioni irreversibili lungo il suo svolgimento. La libertà è, perciò, dimensione costitutiva della formazione della propria identità. Ciò vuol dire che l’identità non è puro dato passivamente ricevuto dal proprio ambiente e dalla propria storia, e nemmeno pura creazione estemporanea e capricciosa o invenzione arbitraria, bensì innanzitutto frutto del lavorio che ciascuno compie con se stesso e su se stesso.
Ma ecco che qui si rende necessario un passo ulteriore. Tutto ciò che in questa maniera abbiamo riferito al singolo individuo, in realtà il singolo non lo può comprendere e compiere da solo, e nemmeno attingendo a ciò che la società gli mette a disposizione, se non interagisce ricambiando in qualche modo ciò che da essa ha ricevuto. Guardandosi attorno ciascuno si accorge che il cammino che egli sta facendo è lo stesso o simile a quello che altri stanno compiendo. Il cammino alla ricerca della propria identità è insieme personale e comune. Non solo. Ciascuno può portare avanti il suo cammino perché altri lo stanno aiutando facendo il proprio, e viceversa. In questo procedere insieme, ciascuno con il proprio passo e nello stesso tempo gli uni accanto agli altri, aiutandosi e sostenendosi scambievolmente, si sperimenta che tante cose sono comuni, e così facendo si impara a conoscere, ad apprezzare e a condividere il mondo interiore e relazionale proprio e altrui. Ciascuno ha ricevuto in eredità un patrimonio culturale, che in larga misura costituisce anche un bene comune ad altri, condiviso; quando uno se lo appropria e vede altri fare lo stesso, scopre di potere non solo accumulare e consolidare insieme a loro ciò che ha ricevuto, ma anche dare vita a un nuovo patrimonio comune.
Camminare insieme così è già fare comunità, costruire comunità umane autentiche. Ma per costruire veramente simili comunità c’è bisogno che la condivisione crescente di valori, di idee, di esperienze e di tutto ciò che edifica l’umano diventi qualcosa di più e ne mobiliti tutte le energie, e cioè si trasformi in progetto, progetto comune di buona umanità, in cui il sogno di un mondo in cui ciascuno e tutti si viva bene con se stessi e gli uni con gli altri non rimanga utopia, ma divenga qualcosa di concreto, prenda consistenza almeno in qualche frammento di comunità.
Ora, quasi giocando con le parole, voglio notare, a questo proposito, che c’è frammento e frammento. Se abbiamo dovuto constatare che ci troviamo in una società estremamente frammentata, nella quale è avvenuta una sorta di esplosione in seguito alla quale una totalità è andata in pezzi per la rottura della sua unità, possiamo tuttavia pensare che ogni singolo frammento può essere ripreso e curato in quanto contenente qualcosa della vita buona di persone che condividono e vogliono costruire qualcosa di serio insieme; allora il frammento diventa una sorta di microcosmo in cui il tutto si rispecchia e si riconosce, anche se la totalità ancora è lontana dall’essere ricostruita integralmente. Il sogno di un tutto integro può essere una luce, una sorta di punta avanzata che guida in avanti; diventa pericoloso solo se si trasforma in una pretesa imperiosa di realizzazione subitanea qui e ora, poiché in tal caso finisce con lo schiacciare le persone, le loro volontà, i loro progetti, soprattutto le reali possibilità che sono date loro nel momento e nel contesto concreto in cui si trovano a vivere.
Quali compiti per il Terzo Settore
Il Terzo Settore non è l’intero mondo della vita, delle relazioni, del lavoro, della creatività. Nella società umana ci sono anche lo stato e il mercato. Esso è una realtà diventata di fatto molto significativa, ma non può avere la pretesa, e di fatto non ce l’ha, di cambiare la totalità della realtà. Nel Terzo Settore ogni soggetto che ne fa parte è come un frammento. Sta a ciascuno decidere che tipo frammento vuole essere. Terzo Settore non è una parola magica che trasforma per incanto ogni persona, gruppo, cooperativa, società, organizzazione o altro che venga a farne parte, per il solo fatto di stare dentro un contenitore nobile o dietro una etichetta rispettabile. Ogni frammento deve decidere ciò che vuole essere: la scheggia impazzita scagliata da una esplosione disgregatrice oppure il nucleo iniziale di un mondo sensato e benefico, la tessera luminosa di un mosaico armonico e maestoso, una articolazione efficiente di un organismo vivente.
Che cosa significa, allora, costruire identità, fare comunità, elaborare un progetto per le organizzazioni che possiedono le caratteristiche e attuano le finalità costitutive proprie del Terzo Settore? Certo, non si può pretendere di farsi carico del tutto delle potenzialità e delle responsabilità di un territorio come il nostro. Si tratta però, certo, di pensare e di agire in maniera tale da tenere presente e promuovere l’insieme della società in cui voi operate.
Il bene comune – scrive papa Francesco nell’enciclica Laudato si’ al n. 157 – presuppone il rispetto della persona umana in quanto tale, con diritti fondamentali e inalienabili ordinati al suo sviluppo integrale. Esige anche i dispositivi di benessere e sicurezza sociale e lo sviluppo dei diversi gruppi intermedi, applicando il principio di sussidiarietà. Tra questi risalta specialmente la famiglia, come cellula primaria della società. Infine, il bene comune richiede la pace sociale, vale a dire la stabilità e la sicurezza di un determinato ordine, che non si realizza senza un’attenzione particolare alla giustizia distributiva, la cui violazione genera sempre violenza.
Se c’è qualcosa che il Terzo Settore per definizione è destinato a contrastare, questo è senz’altro la chiusura in una ottica particolaristica ed economicistica. La gestione responsabile e non in perdita di una attività non può esaurire tutto l’interesse di un soggetto sociale del Terzo Settore, ma deve includere e, anzi, integrare le motivazioni ideali e gli obiettivi immateriali che gli sono propri costitutivamente. Questo è il primo compito affidato al Terzo Settore.
Oggi si parla giustamente, anche al di fuori dell’insegnamento sociale della Chiesa, di beni comuni e di beni relazionali, per intendere che la ricchezza e il benessere cercati e prodotti non sono solo di ordine strettamente economico, ma alla fine riguardano il bene intero della persona e della comunità in cui ciascuno è inserito. Questa dimensione specifica del Terzo Settore gli conferisce una responsabilità molto rilevante, se non esclusiva, nel portare dentro il tessuto sociale la testimonianza e la pratica di una cura assidua nel perseguimento del bene della persona come tale e della buona convivenza come obiettivo ultimo di ogni attività sociale, compresa quella economica. La persona, in armonica e ordinata relazione con le altre persone e con l’ambiente, va considerata il bene comune primario e generale da salvaguardare e promuovere in tutte le attività sociali. Il Terzo Settore nasce per rispondere ultimamente a questa esigenza. In quanto tale esso, allora, assolve anche un compito educativo in senso lato. Scopriamo, infatti, ad ogni passo quanto ci sia bisogno di riscoprire questo senso elementare di umanità nelle relazioni in tutti i settori della vita sociale, specialmente negli apparati burocratici e nei vari ambiti di attività economica.
Una implicazione di questa prospettiva personalistica ed educativa riguarda le fasce sociali più deboli della collettività. E questo a me sembra il secondo compito. Non mi riferisco agli indigenti e ai poveri guardati con l’occhio della carità cristiana e con l’approccio degli organismi della Caritas. Parlo piuttosto di quegli stessi e di tutti quelli che subiscono limitazione o privazione della propria dignità, perché mancano di lavoro o di altre condizioni necessarie per il rispetto dei propri diritti, in quanto cittadini di uguale dignità che sono in attesa di giustizia. Si tratta, dunque, della responsabilità della società di far fronte ai diritti giusti dei propri membri attraverso le istituzioni deputate allo scopo. Gli organismi che compongono il Terzo Settore hanno la possibilità di richiamare le istituzioni e la società intera a non perdere di vista tale responsabilità essenziale attraverso il contributo proveniente dalle proprie attività volontarie finalizzate a quegli stessi scopi.
Infine, il terzo compito va posto a carico del Forum nel suo insieme. Esso nasce dall’esigenza di esercitare una interlocuzione e, nelle forme legali appropriate, una sorta di pressione sociale perché le istituzioni statali e le organizzazioni civili rispondano al meglio alle istanze che salgono dalle comunità umane del territorio. È, questa, una esigenza che risponde ad un bisogno oggettivo, ma reagisce anche ad una tendenza al calo di tensione civile, se non morale, che nello scorrere del tempo affligge non pochi rappresentanti delle istituzioni e delle organizzazioni sociali, a cominciare dagli apparati burocratici di ogni genere e da forme di sindacalizzazione rigidamente autoreferenziale.
Concludendo, posso solo aggiungere che anche i responsabili e gli operatori del Terzo Settore sono sottoposti alla tentazione della perdita di quella tensione morale e civile da cui nasce la sua ispirazione originaria, espressione della «autonoma iniziativa dei cittadini che concorrono, anche in forma associata, a perseguire il bene comune, ad elevare i livelli di cittadinanza attiva, di coesione e protezione sociale, favorendo la partecipazione, l’inclusione e il pieno sviluppo della persona, a valorizzare il potenziale di crescita e di occupazione lavorativa», come recita l’articolo 1° della legge 117 del 2017.
A questo scopo l’istanza con cui ultimamente confrontarsi tocca ogni singolo attore del Terzo Settore, la sua coscienza e la sua responsabilità personale; più precisamente tocca le motivazioni ideali da cui prende origine quella libera iniziativa che sfocia nelle forme più diverse di questo nuovo spazio, legalmente riconosciuto e tutelato, della vita associata. Voglio leggere il vostro aver voluto incontrare il vescovo come una implicita dichiarazione di apprezzamento e di condivisione di ciò che egli rappresenta, come pastore della Chiesa cattolica, ispiratrice di quella dottrina sociale che ha indirizzato singole coscienze, operatori sociali e politici, aggregazioni ecclesiali e civili verso una dedizione alla causa della persona e della sua incondizionata dignità nel quadro delle relazioni che la costituiscono e che essa stessa richiede per realizzare se stessa insieme e in seno alla comunità. Di qui potrebbe prendere avvio un percorso ulteriore dai contenuti e dal sapore espressamente religioso, più precisamente biblico e spirituale. La cosa è evidentemente lasciata al cammino personale di ciascuno e agli eventuali raggruppamenti ecclesialmente qualificati che vi caratterizzano. Ma era necessario esplicitare queste premesse per collocare il vostro percorso credente nel quadro proprio dell’ordinamento che vi ha fatto convenire stasera a questo incontro.