La Patata bollente delle nuove femministe
Hanno scelto di mostrare al mondo la loro “natura” per rivendicare diritti. Hanno scelto di farlo in una data particolare, l’8 Marzo e in alcune zone simbolo d’Italia, come ad esempio l’Altare della Patria a Roma. Sono le femministe dei collettivi Ambrosia e Macao che sono poi state emulate da molti altri gruppi in giro per la penisola.
Quando si parla di donne bisognerebbe farlo in punta di penna, anche se oggi quasi tutto viene scritto su una tastiera, ma certo una manifestazione del genere non può non generare domande. La prima è senza dubbio “Perché?”. Già, perché nel 2017 un gruppo di donne, fortunatamente poche, ha deciso di spogliarsi per rivendicare diritti? Che la donna sia stata bistrattata nei secoli è storia, che per avere alcuni diritti sacrosanti (pensiamo al voto, alla possibilità di lavorare in ogni settore) abbia dovuto lottare duramente anche.
E’ ancora vero che resistano degli stereotipi che deprimono la figura femminile come quello per cui se una donna piacente raggiunge ruoli di prestigio questo significhi solo una cosa, e non si sta certo parlando della sua bravura. Come se una donna, per essere apprezzata solo per le sue capacità debba essere forzatamente anti-estetica. Non è forse vero che anche un uomo piacente, in alcuni ambienti lavorativi, venga preferito a un collega di pari capacità ma più bruttino (anzi a volte anche ad un collega con qualche capacità in più)? Ma questa è la conseguenza del sistema consumistico e capitalistico e il giudizio non dovrebbe essere differente tra uomini e donne. In alcuni casi peraltro è lo stesso ruolo che richiede che la persona che lo riveste sia “fotogenica”.
E’ vero che a oggi ci sia ancora una disparita di trattamento economico tra uomini e donne e che alcuni datori di lavoro prediligano i primi alle seconde. Anche qui però la colpa di chi è? Dei datori di lavoro che con la maternità si vedono privare non solo di una forza lavoro ma di tanti denari oppure di una legislazione che non parifica il diritto alla maternità a quello alla paternità (lo fa solo in parte scimmiottando il welfare del nord Europa) e soprattutto non mette in condizione il datore di lavoro di non “subire” quello che una società dovrebbe proteggere come il dono migliore dei suoi cittadini, quello di mettere al mondo un figlio? Anche in questo caso bisognerebbe ragionare bene sulle priorità per uno Stato. Il consumo, la produttività? O la felicità? Perché solo la madre è tale e non anche il padre? Perché la “colpa” di un figlio viene addossata solo sul datore di lavoro e invece non si tutela e si premia chi decide di diventare genitore? Perché viene considerato un impoverimento della produzione e non un arricchimento della società e della persona?
Domande a cui è difficile dare una risposta. Risposte che richiederebbero un trattato non un semplice post. Di certo non è osservando una”patata” al vento che questi dubbi di dissipano. Anche perché il messaggio potrebbe essere fuorviante. Vedendo quelle gonne al vento, oltre a una minima eccitazione sessuale e a una curiosità tipicamente voyeuristica infatti, non si è portati a pensare all’integrazione e all’emancipazione della donna. Al contrario la stessa sembra ridursi al suo organo di piacere e riproduzione. Proprio l’immagine da cui hanno cercato di distanziarsi le tante femministe che hanno lottato per decenni gridando al mondo che il loro ruolo non poteva essere limitato a organo di piacere per gli uomini e a quello di fattrici. Che poi non sempre le battaglie abbiano portato a risultati soddisfacenti (non bisognerebbe mai dimenticare che uomini e donne sono diversi, il che non vuol dire che l’uno sia migliore dell’altra) è un’altra cosa ma aprire una parentesi, e non le gambe, sarebbe troppo lungo e complesso. W le donne, ma quelle vere
Andrea Lucidi