A Chiara – il fascino intenso della realtà

A Chiara è il nuovo film di Jonas Carpignano, un film dallo stile originale e unico, che racconta le vicende di una giovane di Gioia Tauro nel suo percorso di crescita, alla ricerca della verità e della propria identità. La trama, nonostante sia una finzione, è assolutamente plausibile e raccontata in un moderno stile neorealistico, che è evidentemente nel DNA del regista, alla conclusione della sua personale trilogia dopo Mediterranea e A Ciambra. Ma in un mondo dello spettacolo sempre alla ricerca dell’ennesimo supereroe, o della trama ad effetto in un proliferare di case di carta, può la nuda realtà coinvolgere per quello che è? La risposta è si, specie quando viene raccontata puntando la telecamera in primo piano sui personaggi, immergendo lo spettatore nel loro mondo interiore, all’interno delle loro sensazioni, dei loro sentimenti. In questo caso si tratta del mondo di una adolescente che si ritrova ad affrontare una realtà particolarmente dura, legata alla latitanza del padre, in un’età delicata caratterizzata da passaggi di crescita a cui tutti, in maniera più o meno sofferta, siamo stati sottoposti. E a quel punto ci sono diversi modi di reagire: subendo la realtà in maniera passiva oppure, come in questo caso, affrontandola di petto, anche se il processo di maturazione che ne consegue è inevitabilmente legato ad un senso di perdita.
Ciò che colpisce dei film di Jonas è l’umanità dei personaggi rappresentati, tipicamente appartenenti a realtà difficili, periferiche, ai confini della legalità, ancora più acuita dalle rare contrapposizioni con gli esponenti della società più ‘convenzionale’, come nel caso di un’assistente sociale, che appare come un’entità estranea, distaccata, inevitabilmente avulsa dal contesto e goffa quanto fastidiosa nella sua volontà di guidare i percorsi di vita di chi è fuori dagli schemi ordinari. Ma proprio quando si pensa di aver intuito e catalogato la morale del fim, ecco che in qualche modo la si supera, perché non ci sono i buoni da una parte e i cattivi dall’altra, non c’è una volontà di giudicare e neanche una morale esplicita ne’ stereotipata… se non semplicemente la volontà di mostrare la vita delle persone, con i loro pregi e i loro difetti, e le dinamiche intrinseche nella vita stessa.
Caratteristica di fondo dei film del regista, a nostro avviso, è la leggerezza nel trattare dei temi così delicati, in cui spicca la mancanza di malvagità e di violenza fine a se stessa, per cui lo spettatore si sente sempre al sicuro. Come detto, i personaggi sono caratterizzati da una indulgente umanità, di cui la famiglia rappresenta il perno centrale: non è un caso forse che per la recitazione si ricorra ad un’intera famiglia presa dalla vita reale, così come in A Ciambra. Anche in questo caso è noto come siano persone di conoscenza personale del regista, di cui è evidente l’affetto personale nei loro confronti. Ne risultano recitazioni di alto livello (oltre alla protagonista, il padre su tutti ha un particolare carisma), merito forse proprio del fatto che si muovono in un contesto noto e famigliare, in una rassicurante comfort zone.
In un’epoca in cui si spiattella il dolore in televisione h24, in cui si condannano le persone pubblicamente con giudizi sommari, alla continua ricerca del mostro da sbattere in prima pagina, Jonas ci viene a ricordare la bellezza e la delicatezza delle trame che risiedono all’interno dell’animo umano e dei rapporti affettivi. Il tutto con uno svolgimento che ha diversi livelli di lettura, studiato nei minimi particolari, in cui si intuiscono simmetrie e citazioni che invitano ad una seconda visione di approfondimento; una trama in cui le ragioni delle azioni dei protagonisti sono sempre lievemente sotto traccia, lasciate all’interpretazione del pubblico più o meno attento e sensibile.
In tutto questo non è però un film cerebrale ne’ contemplativo, anzi è un film caratterizzato dal movimento continuo della protagonista (e della telecamera) alla caparbia ricerca della verità e della propria strada. Un movimento tipico della giovinezza (ricorre il tema della corsa), che si contrappone in qualche modo alla staticità famigliare dove risiedono gli affetti, e da cui emerge, astraendosi dal contesto, il conflitto adolescenziale tra l’esigenza di affrancarsi e allontanarsi dalla propria famiglia, ed il vuoto affettivo che questo può creare, essendo essa di fatto insostituibile.
Ed in questo movimento, attraverso una regia originale ed un uso costante della colonna sonora a guidare le nostre emozioni, diventiamo noi stessi spettatori, tramite la protagonista, di realtà nascoste e sotterranee, proibite quanto affascinanti. Ci ritroviamo infiltrati nel cuore di una realtà clandestina, quella della malavita, che ci viene narrata quotidianamente solo dall’esterno.
È nei momenti di pausa però che emergono le emozioni più intime della protagonista, nella rielaborazione del suo vissuto, che avvenga durante il sonno o davanti a uno specchio, con delle scene di forte impatto emotivo che rimangono impresse nella memoria.
Insomma, in un mondo dello spettacolo in cui sembra prevalere una costante ricerca dell’eccesso narrativo, la telecamera viene qui piegata verso l’essere umano, come una lente che provi a rilevarne i meccanismi più intimi, riconciliandoci con la realtà.

Mario Saveri

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