STEFANO TASSINARI: PER LE ACLI NESSUN NUOVO COLLATERALISMO
Con riferimento alle ultime uscite stampa, rilanciate anche sui social dell’associazione, preme qui fare chiarezza.
Ci deve essere certamente rispetto per chi cerca nella società civile nuove disponibilità, questo talvolta potrebbe essere anche segno di considerazione e incoraggiare una maggior presenza di persone che portino istanze nuove dentro le istituzioni. Inoltre da più parti emerge quanto sia stato insensato aprire questa crisi politica, per quanto ragioni di critica potessero e dovessero esserci. La drammaticità del momento avrebbe dovuto avere la meglio. E’ prevalsa invece, in chi ha aperto la crisi, una logica che mette fortemente a rischio la situazione del Paese.
Ma tutte queste considerazioni non consentono di usare il nome delle Acli per associarlo a qualche partito. Le Acli non sono in cerca di nuovi collateralismi, ma restano fedeli alla propria autonomia, guadagnata con fatica e coraggio in anni nei quali questo significò correre profondi rischi per scegliere di essere donne e uomini di frontiera.
Un’autonomia che non significa neutralità, anzi permette autorevolezza nel dire e proporre quello che si pensa. Anche nell’esporsi con forza specie quando la democrazia e i diritti sono messi in discussione. Se poi nel dibattito e nelle scelte dell’associazione si vuole proporre nuovi collateralismi, chi lo pensa può farlo con chiarezza negli organi, tanto più in questa fase di pieno percorso congressuale. Per il resto non risulta decisione alcuna che consenta di usare le Acli a fianco di progetti di partito, per quanto ognuno possa a livello personale apprezzarli o meno. Non si entra nelle Acli per essere un numero o un voto che qualcuno possa sbandierare. Rifacendosi al pensiero dei partigiani cattolici: non cerchiamo liberatori, ma donne e uomini che si liberano.
Ciò detto, segnali di attenzione dalla politica li aspettiamo, oggi, urgentemente su diversi punti. Ne segnalo tre, al centro degli appelli di questi giorni.
Il primo è la tragedia umanitaria dimenticata che si consuma sulla rotta balcanica. Il dramma di migliaia di famiglie e bambini, ma più in generale una “nazione”, per numeri grande quanto la Germania: il popolo di chi fugge dalla guerra, dalla fame, dalle catastrofi per essere spesso relegato in terre lontane dai riflettori, in campi a volte simili a lager, nella quasi generale miopia globale.
Secondo: una parte molto grande degli enti di Terzo settore, che si occupa di cultura e socialità, è oggi chiusa e miseramente “ristorata”. Anche i fondi stanziati per progetti non sono accessibili se si è chiusi. Nessuno chiede di essere aperti se la salute viene messa a rischio. Ma si chiede con forza di non essere discriminati laddove alcune delle stesse medesime attività che il profit commerciale e il Terzo settore commerciale possono tenere aperte nelle zone a minor rischio non lo possono essere per il Terzo settore non commerciale, per il quale, per quanto queste attività siano solo strumentali, risultano vitali per non chiudere definitivamente. Pare proprio una discriminazione, non una misura di sicurezza.
Terzo, ma non ultimo, proprio tornando all’agenda del Paese, riprendo anche qui un tema che credo centrale: lo sviluppo sarà autentico e sostenibile se sarà “sociale”.
Se si cerca un uso strategico e innovativo delle risorse disponibili (Recovery e non solo) il Terzo settore sia coinvolto come partner essenziale per uno sviluppo che sarà capace di essere sostenibile solo se sarà innanzitutto “sociale”.
Cosa significa? Costruire una programmazione che sia coprogrammazione, una grande convocazione del Paese, dei suoi territori, delle comunità, a un protagonismo d’insieme, non campanilistico o appannaggio di qualche rendita di posizione locale o d’altro genere, ma effettivamente aperto e in grado di raggiungere le persone e la gente comune, dentro un rinnovato senso di collettività civile.
Inoltre “sociale” significa partire prioritariamente dalle tante troppe iniquità che già prima della pandemia hanno frammentato e frammentano ora ulteriormente la società e il pianeta. C’è una emergenza in tema di giustizia sociale e, per così dire, ambientale, da cui partire. Bene le risorse stanziate compreso il Mes, da non scartare: è un gran passo avanti vedere certi temi al centro di Next Generation Eu, ma occorre anche un nuovo patto globale e regole certe.
Facciamo sì, come Europa, che questo sforzo inedito sia affiancato da una sorta di Green e Social Compact: non si capisce perché solo in tema di bilanci pubblici si debbano avere delle regole e non anche, con la stessa forza, per impedire, ad esempio, l’arroganza di chi, umiliando la democrazia e la stessa libera concorrenza, oggi può scegliere di andare a pagare le tasse dove più gli conviene.
Per cui ben venga la considerazione su questo e altro: il futuro dipende dalle scelte di oggi, non di domani.
Stefano Tassinari