TUNISIA, PESCA CHARFIA PATRIMONIO DELL’UNESCO
L’eccezionale tecnica di pesca alla Charfia, all’isola di Kerkennah in Tunisia, è stata iscritta, dall’Unesco, nella lista del patrimonio immateriale dell’umanità. Lo ha reso noto l’Unesco sul proprio sito. Il dossier per ottenere questo importantissimo riconoscimento è stato presentato all’Unesco su iniziativa dell’Istituto Nazionale del Patrimonio tunisino (Inp) e della Delegazione permanente della Tunisia, si legge su Webport, porto digitale del Mediterraneo, ideato e curato dal Ciheam Bari nell’ambito del progetto Nemo, avviato nel 2014 con il sostegno dell’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo e in collaborazione con i Ministeri di Agricoltura e Pesca di Libano, Egitto, Tunisia, Algeria, Marocco. La Charfiya è un’antichissima tecnica di pesca, il cui uso risale addirittura all’era punica. Il nome, apparso nei documenti ufficiali solo intorno al XXVII secolo, ed esattamente nel 1670, deriva dal termine arabo charaf (nobiltà) ed è legato al nome della famiglia Charfi (i fratelli Ahmed e Ali Charfi), proveniente da Sfax, che deteneva il monopolio per lo sfruttamento del demanio marittimo. Nel 1772, il Bey di Tunisi, Ali Pasha Bin Hussein Bin Ali toglie tale diritto alla famiglia Charfi, per assegnarlo ai soli abitanti di Kerkennah.
La charfiya è un labirinto realizzato piantando nel fondale un gran numero di foglie di palma che creano dei corridoi attraverso i quali, grazie alle correnti, i pesci arrivano nelle camere di cattura. Qui, i pesci trovano le nasse deposte dai pescatori in cui rimangono definitivamente intrappolati. Le conoscenze relative a questa singolare tecnica di pesca vengono trasmesse di padre in figlio. La realizzazione della charfiya, infatti, richiede un’ottima conoscenza del fondale marino, delle correnti e dei venti dominanti. È solitamente installata in mare nel mese di ottobre e viene rimossa nel mese di giugno, garantendo un periodo di riposo biologico alle specie ittiche oggetto di cattura. Si tratta di un sistema di gestione unico in ambito marittimo arabo-musulmano: le famiglie dell’isola possiedono parcelle di mare adibite alla charfia e se le tramandano di generazione in generazione. Le charfia tradizionali sono rinnovate ogni anno e rispettano il periodo di riposo biologico necessario alla riproduzione dei pesci, contrariamente alle charfia “moderne”, in rete e struttura fissa, che possono rimanere in mare fino a tre anni consecutivi.
Con le foglie di palma si costruiscono anche le nasse (drina), trappole a doppio cono in cui pesci e polpi entrano ma dai quali difficilmente riescono a liberarsi, si legge sul sito della fondazione Slow Food che alle Kerkennah ha un presidio precisando che “nasse e gargoulettes sono oggi sostituiti da equivalenti in plastica, abbandonati in mare una volta terminato il loro ciclo d’uso”. “Con questi metodi tradizionali si catturano sparaglioni, saraghi fasciati o a testa nera, sarpe salpa, dorate, cefali musino, triglie, polpi, sogliole, spigole, tordi verdi, sciarrani”. “Chiunque abbia assaggiato il pesce catturato con la charfia concorda: è più buono, perché il pesce “aspetta”, tranquillamente e senza ferite, il passaggio dei pescatori che lo raccolgono”, conclude Slow Food.