Il tramonto e i figli di Priamo di Nicola Tavoletta

Quando penso al tramonto ho in mente tre cartoline laziali. Ne ho visti molti straordinari, dalle coste tirreniche della Sicilia a quelle della Penisola Sorrentina, dal Golfo di Biscaglia a quello infinito o repentino, a seconda dei mesi, di Mosca, senza contare quella sfera infuocata che si eclissa dietro ai trulli di Alberobello, al Castello di Praga o tra i vicoli di Valencia. Però tre della mia terra ve li suggerisco: il tramonto visto dal Belvedere di Sperlonga, quando il sole scende dietro al promontorio del Circeo e rende argenteo il mare, quello che possiamo ammirare dall’Appia, fermandoci all’altezza di Pontinia, è un gettone dorato che si infila tra i filari degli eucalipti. Quest’ultimo lo apprezzai con gusto quando smisi di vedere Slovacchia-Italia 3-2 del 2010, ingloriosa uscita dal Mondiale Africano. Ecco, quel tramonto pontino è molto africano. Il terzo, il più bello è il tramonto che esplode nei colori tra le sagome del Palazzo della Civiltà Italiana e la Basilica di San Pietro e Paolo all’Eur.

Ho esordito con una galleria di immagini crepuscolari per chiedervi se qualche tempo fa non ci fossimo sbagliati e il vero tramonto del ‘900 non fosse stato vent’anni fa, cronologicamente, oppure, come molti storici affermano del cosiddetto “secolo breve” nel 1945.
Credo che il tramonto del ‘900 sia oggi, credo che quel secolo nelle sue sfumature culturali, sociali ed economiche stia per terminare con l’attuale pandemia globale. Il 2000 è stato semplicemente un numero del calendario, mentre il terrorismo globale, identificato con l’undici settembre, non abbia rappresentato una rottura con il passato, anzi propri una continuità delle vicende novecentesche. Potremmo dire che non è finito nel 1945, perché tutto quello che successe dopo è figlio idealmente e ideologicamente proprio del periodo 1914/1945.
I mesi che stiamo vivendo, ma ne saremo più certi più avanti, mi sembra che rompano, invece, con il passato nello stile, nei modelli.
Porto tre motivazioni.
La Pandemia sta colpendo prevalentemente i Paesi più ricchi, quelli fisicamente protetti dopo Yalta: Stati Uniti, Italia, Spagna, Francia, Germania o Inghilterra.
Si sta sgretolando il mito dell’appartenenza alle metropoli della finanza, mentre sono più fragili New York, Milano, Tokyo o Londra, si fortifica invece l’appartenenza alle diverse comunità culturali. Siamo tutti più distanti, ma moltiplichiamo i contatti digitali per confrontarci nella varietà di riflessioni o pensieri e non più, prevalentemente, negli atti commerciali o professionali. In questi giorni le città vengono superate dalle reti, nuove forme associative. Addirittura sono i contenuti a cercare le persone, questo è il caso della scuola o della formazione digitale. Non ci spostiamo noi, ma sono loro a cercarci, considerandoci necessari. Terzo motivo: cade il mito della velocità, investendo molto di più sulla operosità. Il ‘900 è stato il secolo della apoteosi della velocità, invece ora stiamo iniziando a pensare al compimento dei processi, alla produzione del valore, limitando l’ incidenza del parametro temporale.
Scorgo dunque in questi tre elementi il tramonto del ‘900, ma anche il germogliare dell’alba del nuovo secolo.
Nel titolo ho citato i figli di Priamo, cosa c’entrano?
Secondo Omero erano 50, secondo altre fonti 50 maschi e 50 femmine; Priamo ebbe tre mogli e innumerevoli concubine.
Pensiamoci, nella storia difficilmente troveremo casi nei quali una intera dinastia ereditaria, così variegata, una intera discendenza, così ampia, cugini compresi, rimanga compatta. Dal Monte Ilio, se non sbaglio nacque Roma, l’occidente. Penserei, questa volta, contro un nemico così subdolo, come il virus, che essere figli di Troja non guasta. Loro persero contro i greci e diedero vita a nuove civiltà. Noi potremo fare anche bottino pieno, dato che da allora ci siamo “allenati” per migliaia di anni.

Nicola Tavoletta

foto nicola

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