Il Vescovo sul terzo settore: “mette al centro la persona e crea ricchezza”
Di seguito il messaggio del Vescovo della diocesi di Latina Mariano Crociata tenuto il 6 aprile scorso in occasione dell’incontro conclusivo dei seminari sulla legge di riforma del terzo settore tenuti da Acli e Cesv.
Ho accolto l’invito a proporre una riflessione introduttiva a questo incontro conclusivo della serie di seminari promossi dalle ACLI della provincia di Latina sul Terzo Settore, innanzitutto per esprimere apprezzamento e incoraggiamento a una iniziativa formativa come questa e poi per ribadire il grande rilievo sociale, oltre che economico e culturale, del tema posto al centro della riflessione. Gli incontri svolti finora hanno ruotato attorno alla Legge di riforma del Terzo Settore approvata in Parlamento circa un anno fa: una legge giustamente salutata da una corale approvazione e accompagnata da un vasto consenso da parte dell’opinione pubblica più avvertita delle questioni in gioco nelle materie che essa è venuta a regolamentare e indirizzare. Per molteplici ragioni, non intervengo nel merito della legge, bensì prendo spunto da essa e dagli effetti positivi che ci si aspetta dalla sua recezione, per una riflessione che porti all’attenzione le dimensioni di fondo o di carattere più generale a cui essa rimanda dal punto di vista sociale e in una visione cristianamente ispirata.
Quando parliamo di Terzo Settore entra in gioco uno dei principi, e tra i più richiamati anche nel dibattito pubblico, dell’insegnamento o Dottrina sociale della Chiesa, e cioè quello della sussidiarietà e dei corpi sociali intermedi. Questo riferimento merita una precisazione, suggerita dalla stessa denominazione. Il termine dottrina infatti potrebbe trarre in inganno, se facesse pensare a una serie di affermazioni definite una volta per tutte e immutabili. La materia a cui si applica quell’insegnamento – come è forse più adeguato denominarla – è la vita sociale, con la sua tipica vitalità e con il carattere di costitutiva continua trasformazione. L’applicazione ad essa dei principi di fondo che scaturiscono dalla visione cristiana richiede uno sforzo di sempre rinnovato adattamento, frutto di un discernimento passo dopo passo che il magistero della Chiesa esercita avvalendosi anche di tutti gli apporti delle scienze umane e delle esperienze delle comunità ecclesiali nel vivo del tessuto sociale, nel quadro della visione cristiana dell’uomo e della società.
Il caso che abbiamo messo a tema è esemplare in tal senso. Infatti, con una accelerazione che è tipica della vita sociale soprattutto in questo tempo, la stessa formula Terzo Settore, che sembrerebbe una conquista e un punto di arrivo – e in larga misura lo è –, è suscettibile di osservazioni che non ne svalutano la sostanza ma ne precisano il senso e le prospettive. Anche in questo caso le denominazioni sono indicative di concezioni e di conseguenti opzioni. Di fatto la formula Terzo Settore fa riferimento all’ambito sociale ed economico che si è sviluppato accanto e dopo lo Stato e il mercato, considerati rispettivamente primo e secondo settore. In tal senso la distinzione anglosassone tra for profit e non profit entra in gioco con pertinenza dal punto di vista concettuale.
La realtà sociale, nondimeno, mette di fronte a fenomeni socio-economici nuovi da un lato e a interpretazioni e opzioni concettuali ed etiche innovative dall’altro lato. Sul primo versante constatiamo che soggetti tipici del Terzo Settore, come onlus, organizzazioni non governative, associazioni e cooperative, se forniscono servizi che né il pubblico né il privato sono in grado di soddisfare, quanto meno appieno, tuttavia non sempre è necessario o non sempre avviene che ciò venga compiuto senza profitto, ma componendolo insieme a un parziale profitto utilizzato in piccola o grande misura secondo le finalità istitutive dei rispettivi soggetti socio-economici. Non a caso la legge parla di imprese sociali che operano per finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale. Il carattere di appartenenza al Terzo Settore può non essere determinato dalla totale assenza di scopo di lucro, ma piuttosto dalle finalità che contraddistinguono il cosiddetto privato sociale rispetto al privato che nel profitto perseguito secondo le leggi di mercato trova il proprio tratto specifico. In tal senso si parla di processo di ibridazione tra profit e non profit (le cosiddette società benefit che perseguono contemporaneamente scopi di profitto e finalità sociali).
Le osservazioni che vengono sviluppate sul tema del Terzo Settore soprattutto nel contesto dell’insegnamento sociale della Chiesa tendono, su questa scia, ad allargare orizzonti che potrebbero meglio valorizzare e ampliare le potenzialità del Terzo Settore. Considerato, infatti, dal punto di vista del principio della sussidiarietà, lo sviluppo del Terzo Settore e la stessa legge che lo regolamenta hanno il pregio di unire alla sussidiarietà verticale la sussidiarietà orizzontale. Questo rappresenta una evoluzione di non poco conto rispetto a un approccio piuttosto rigido del principio e della sua applicazione. Il passo avanti compiuto dalla legge suggerisce tuttavia un approfondimento ulteriore che, con Stefano Zamagni, possiamo indicare in una sussidiarietà di tipo circolare, secondo cui, cioè, le imprese del Terzo Settore non si limitano a ricevere dallo Stato risorse economiche, per esempio, per restituire servizi, ma ricevono anche dal privato for profit (come esclusivamente avviene in ambito anglosassone) e all’uno e all’altro forniscono a loro volta servizi, ma anche iniziativa sociale e circolazione di ricchezza.
Questo porta a individuare il tratto peculiare del Terzo Settore, come spazio della imprenditorialità sociale diffusa, non nella supplenza rispetto a uno Stato e a un mercato inadempienti e non più all’altezza di garantire i servizi ai quali i cittadini hanno diritto o di cui comunque hanno bisogno, ma in quella che viene definita economia civile, come espressione della società civile, spazio della libera iniziativa dei cittadini di creare beni socio-economici e relazionali comuni finalizzati alla persona e alle sue comunità, non semplicemente rivolti alla destinazione universale (come è il caso dello Stato) o subordinati al raggiungimento di un profitto che utilizza persone e lavoro all’unico scopo di accrescere la ricchezza. L’economia civile ha la possibilità – o si dovrebbe dire: la pretesa – di ridare fiato alla centralità della persona e delle sue comunità nel contesto della società e dell’economia e in regime di pluralismo e di democrazia, rispetto a uno Stato che deve necessariamente dirigersi alla totalità e alla generalità dei cittadini anonimamente considerati e rispetto a un privato capitalistico che subordina al profitto il lavoro e i lavoratori, nell’uno e nell’altro caso, rispettivamente cittadini e lavoratori, ridotti a numeri di serie più che considerati come persone, portatrici di esigenze specifiche e di potenzialità originali da valorizzare a beneficio di loro stesse e delle comunità.
Il vero tema a cui ci conduce la riflessione sul Terzo Settore, o meglio sull’economia civile, è ultimamente la persona nella comunità come soggetto libero e creativo del proprio destino condiviso nella rete di relazioni al di fuori della quale nessuno può essere realmente persona. E il contesto generale di crisi, tipicamente organica alla fase di globalizzazione che da anni attraversiamo, non fa che rendere ancora più acuta l’esigenza – e anche l’urgenza – di dare spazio crescente a una dimensione dell’organizzazione economica che contrasti l’individualismo in cui le persone sono gettate e abbandonate a se stesse, sole nella illusione di poter trovare nel consumo risposte che invece le relazioni e i valori da esse generate sono in grado unicamente di fornire. In termini positivi, ciò che la nuova legislazione e la cosiddetta economia civile lasciano trasparire è l’investimento e lo sviluppo del capitale sociale e umano che la libera iniziativa delle persone e dei corpi sociali intermedi è in grado di attivare, così da generare socialità attraverso la produzione e la erogazione di beni relazionali. È in questo senso che si parla di welfare generativo e di politiche volte a migliorare le cosiddette ‘capacitazioni’ delle persone, e cioè le loro capacità di prendere iniziativa e di agire, con il compito alla fine di generare reti di solidarietà e di reciprocità, per veicolare valori capaci di elevare il livello della qualità della vita. Una prospettiva allettante se consideriamo il clima depresso che questa lunga fase di travaglio sociale ed economico ci sta facendo conoscere.
La questione che, invece, emerge come alquanto inquietante è la capacità delle persone e delle comunità di dare contenuto e sostanza alle possibilità che la nuova legge e le dinamiche creative dell’economia civile aprono. Fare impresa, e impresa sociale, richiede una carica motivazionale, uno spirito di iniziativa e una energia intellettuale e morale che non sembrano moneta molto circolante di questi tempi. Le rilevazioni sociologiche descrivono un panorama variegato, non privo di nicchie, se non di zone, di qualità e di eccellenza. Tuttavia la più gran parte della collettività non sembra condividere questo status. Non è per fare moralismo di comodo che viene di constatare che, pur in tempi di crisi, di fatto non ci facciamo mancare nulla (e questo non deve essere necessariamente deprecato, sebbene si accompagna a una distribuzione molto diseguale del benessere e a sacche crescenti di miseria); e se non ci manca nulla, non abbiamo nemmeno, almeno prevalentemente, nessuno stimolo a cercare e a darci da fare; al massimo, può avvenire che ci adoperiamo per difendere le sicurezze raggiunte (e questo sembra essere, se mi posso permettere, lo standard dei sindacati oggi) e, al più, accrescerle rivendicandole soprattutto dal settore pubblico, se non per altre vie non molto lineari. L’imprenditorialità sociale richiede spiriti vitali che, se sono propri di chi è nel bisogno (e in questo qualche lezione forse comincia ad arrivare o arriverà sempre di più da molti tra quelli che formano le folle incontenibili di profughi e richiedenti asilo), trovano spazio solo dentro animi riscaldati da grandi ideali e dotati di robusta energia morale.
Questo compito restituisce a me, pastore, tutta la responsabilità di operare nel campo della cura delle coscienze e della formazione cristiana. In questo sono consapevole che non basta la parola, e a volte nemmeno l’esempio, per produrre coscienze vive e decisioni ferme. Senza in nulla ridimensionare le responsabilità che ricadono sulle spalle dei pastori e della comunità ecclesiale, direi però che anche in questo campo va fatta valere una sorta di sussidiarietà circolare, poiché il rinnovamento delle coscienza e un sussulto morale personale e comunitario possono venire da una condivisione e da uno scambio di esperienze, di idee e convinzioni, di impegni e decisioni che non dobbiamo cessare di coltivare ma piuttosto dobbiamo adoperarci per accrescere con cura assidua e instancabile dedizione.