Slowfish a Genova, l’appello: “Il Mediterraneo sta morendo di caldo”

Genova – Scompaiono coralli e molluschi e i pescatori devono andare sempre più al largo per lavorare perchè le ondate di calore e l’aumento delle temperature creano gravi squilibri all’ecosistema marino, riducendone la biodiversità. E’ quanto emerge da un incontro promosso alla vigilia di Slow Fish, la manifestazione organizzata da Slow Food e Regione Liguria che coinvolgerà da giovedì 1 a domenica 4 luglio i visitatori del centro storico di Genova in incontri, percorsi di educazione, degustazioni e consigli per acquisti consapevoli. Tutto il programma è su www.slowfish.it.

“L’aumento delle temperature, anche alle nostre latitudini, ci opprime. Ognuno di noi l’ha sperimentato: sulla terraferma patiamo il caldo, cerchiamo l’ombra nelle ore più assolate, ci affidiamo a ventilatori e condizionatori per trovare sollievo dall’afa. Anche nelle acque di mari e oceani la temperatura cresce: e chi vive tra le onde soffre tanto quanto noi, o forse ancor di più” hanno detto gli studiosi in un webinar intitolato ‘Il cambiamento climatico nel mediterraneo’ Questo comporta un addio a tanti cari pesci. Una cosa è certa dice Federico Betti, istruttore subacqueo, dottore di ricerca in biologia ed ecologia marina, zoologo marino e docente del corso di ittiologia presso Università di Genova: “Se la temperatura sale, come sta effettivamente accadendo, alcune specie scompaiono. Il loro posto verrà preso da altri organismi più adatti a vivere nelle mutate condizioni”. Il mare, in altre parole, può adeguarsi: “Siamo noi, gli esseri umani, a non saperci adattare a questi cambiamenti – prosegue Betti -. Il problema è che storicamente l’uomo utilizza l’ambiente marino per una serie di attività come la pesca, l’acquacoltura, lo sport subacqueo, la nautica, e anche semplicemente per tuffarsi e fare un bagno: tutte queste attività sono state possibili in un mare di un certo tipo. Se il mare cambia, cambieranno le attività che sarà possibile fare”.

Gli effetti sulla pesca sono già molto chiari. Lorenzo Dasso, architetto, pescatore e ristoratore, titolare dell’Osteria Raieü a Cavi di Lavagna, nel Genovese, e cuoco dell’Alleanza Slow Food, con la sua barca esce in mare per pescare ciò che propone nel menù: “Non c’è dubbio che negli ultimi dieci o vent’anni l’ecosistema sia cambiato. Fino a poco tempo fa, a riva trovavamo i frutti di mare, i muscoli, le patelle e persino le ostriche, mentre oggi le scogliere si stanno desertificando”.

Per pescare occorre andare sempre più lontano dalla costa ligure, raggiungere le aree in cui la temperatura è più bassa e dove i pesci trovano le condizioni migliori per vivere. “La triglia bianca viveva tra i 20 e i 40 metri dalla costa, mentre adesso la peschiamo oltre i 70. Il pesce prete lo trovavamo dai 20 ai 25 metri, mentre ora sta tra i 35 e i 70. La razza? Si è allontanata dai 25-30 metri di un tempo fino ai 40-60 di oggi.

Il gambero rosa, per il quale ci spingevamo fino ai 200 metri, oggi lo peschiamo intorno ai 300-400. E il gambero rosso si è allontanato ancor di più: se un tempo lo trovavamo a 400-500 metri, oggi occorre andare anche oltre ai 700″. La quantità di pescato, prosegue Dasso “è all’incirca la stessa di dieci anni fa, ma abbiamo dovuto raddoppiare lo sforzo: questo la dice lunga sullo stato di salute del mare”. Chi pesca non ha bisogno di termometri per capire quanto la temperatura sia aumentata: “Dieci anni fa, un blocco di ghiaccio usato per conservare il pesce mi durava cinque ore, oggi me ne dura tre”.

“Negli ultimi venti o trent’anni, le acque nei pressi delle coste del Mar Ligure hanno fatto registrare un aumento di temperatura pari a uno o due gradi centigradi” spiega Federico Betti. “Detto così sembra un dato quasi trascurabile, ma in realtà gli ecosistemi marini sono cambiati completamente e gli effetti in mare sono molto gravi. Da oltre vent’anni assistiamo a periodiche morie di massa – prosegue Betti -, le più gravi delle quali sono state nel 1999 e nel 2003”. Il Mar Mediterraneo, al largo del Peloponneso, supera i cinquemila metri di profondità. Uno spazio immenso e misterioso, in gran parte sconosciuto. “Dell’ambiente pelagico, cioè la zona di mare aperto, sappiamo poco o nulla” ammette Maurizio Würtz, professore emerito presso il Dipartimento di biologia dell’Università degli Studi di Genova. “Del mare, infatti, conosciamo i primi cinquanta metri di profondità, sappiamo qualcosa del fondale della parte costiera, ma resta un grande punto interrogativo sulle biomasse animale e vegetale e sullo spostamento delle colonne d’acqua alla profondità tra i 50 e i 5000 metri”. L’aumento della temperatura dell’acqua marina, tuttavia, rischia di spezzare questo delicato equilibrio: “La preoccupazione – prosegue Würtz – è che gli strati superficiali si riscaldino al punto da bloccare i flussi verticali delle masse d’acqua, e che pertanto non si crei quel rimescolamento con le acqua profonde che assicura il ripopolamento e rende possibile la pesca di grandi predatori come i tonni”. (ANSA).

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