Pablito – di Gianpiero Parente
“Ai più importanti bivi della vita, non c’è segnaletica. “
Cosi amava dire Ernest Hemingway.
Impossibile, in certi frangenti della nostra esistenza, compiere una scelta senza accettarne implicitamente le incognite, i rischi, i possibili rimpianti.
Ed anche le più belle storie di sport nascono da scelte istintive, irrazionali, inspiegabili e dalle conseguenze incerte.
1982. Enzo Bearzot, commissario tecnico della nazionale, è in procinto di affrontare la sua seconda esperienza iridata.
La prima, in Argentina, si è conclusa in maniera soddisfacente, con gli azzurri giunti sino alla semifinale e sconfitti da un’ottima Olanda.
I quattro anni che separano le due competizioni sono però tremendamente lunghi. Agli albori degli anni ottanta, sullo sport italiano, si abbatte lo scandalo del calcio scommesse.
Cronaca giudiziaria e cronaca sportiva si sovrappongono come mai accaduto prima.
Paolo Rossi, centravanti azzurro e rivelazione del mondiale argentino, è coinvolto. Ai suoi danni, una squalifica di tre anni poi ridotta a due in secondo grado . Il verdetto della giustizia sportiva è tanto pesante quanto frettoloso.
Anni dopo, le assoluzioni giunte dinanzi alla giustizia penale ne sconfesseranno l’operato.
Bearzot sa che la spedizione mondiale non può prescindere da Paolo Rossi.
Un attaccante con caratteristiche uniche, rapidissimo a leggere in gioco e bravo a finalizzare l’azione.
La sua è un’idea folle. Una scelta razionale non potrebbe mai ricadere su un atleta fermo da due anni.
Per di più se c’è un’alternativa di assoluto valore, il capocannoniere Pruzzo, centravanti della Roma di Liedholm.
Il tecnico friulano ha le idee chiare: parla con il ragazzo, lo convince a rimettersi in forma e se lo porta in Spagna.
Il pur bravo Pruzzo resta a casa.
Bearzot vuole che il ragazzo sia sereno e teme che la concorrenza con il romanista possa destabilizzarlo.
La scelta drammatica, istintiva, inspiegabile presa dal Ct segna l’inizio di una lunga, furente guerra con i giornalisti italiani.
Il mondiale inizia cosi come l’agguerrita stampa italiana aveva profetizzato. L’Italia soffre contro la Polonia ed il Perù e Rossi è tra i peggiori.
Bearzot non cede ed il titolare resta lui anche nell’ultima gara contro il Camerun.
Il girone si chiude con tre pareggi.
Gli azzurri appaiono in grande affanno e destinati a soccombere dinanzi ai prossimi avversari.
Dopo aver sconfitto, tra lo stupore generale, l’Argentina, l’Italia si trova ad affrontare il Brasile più forte di sempre, secondo molti più forte anche di quello di Messico 1970.
Tra le fila dei verdeoro Socrates , Falcao, Zico e Junior, Eder, ovvero il meglio che il calcio dei primi anni ottanta potesse esprimere.
Paolo Rossi è ancora a secco.
La fiducia di Bearzot continua ad essere incondizionata.
Gli azzurri vincono tre a due e Paolo rossi realizza la tripletta più iconica della storia del nostro calcio.
Tre gol realizzati proprio grazie a quella sua capacità di leggere in anticipo il gioco e bruciare gli avversari.
Quella dote di cui commissario tecnico è fieramente innamorato.
Da quel momento, Paolo rossi, ribattezzato Pablito, non si fermerà più.
Sarà decisivo in semifinale contro la Polonia e nella finalissima del Bernabeu contro la Germania Ovest di Rummenigge.
Sarà il simbolo della vittoria sportiva più emozionante, più irrazionale, più catartica che il nostro calcio abbia conosciuto.
Gianpiero Parente