Adolescenti in carcere: come costruire la propria identità?

L’adolescenza, una fase già di per sé critica e difficile per alcuni giovani, può assumere una dimensione ancora più complessa se vissuta all’interno di un carcere. L’esperienza della carcerazione può risultare particolarmente traumatica per gli adolescenti, che vengono separati dalla famiglia, dagli amici e da relazioni sentimentali. (Si potrebbero fare analogie, benché su un piano diverso e sicuramente con limitazioni meno estese e meno coercitive, con l’attuale restrizione con la quale tutti, compresi gli adolescenti, ci siamo confrontati in questo periodo a causa dell’emergenza sanitaria del COVID-19). La separazione e l’isolamento dei giovani detenuti può portare all’incremento di rischio per la messa in atto di gesti autolesivi e suicidari. Diversi studi rilevano che il tasso di suicidio tra adolescenti detenuti è superiore rispetto a quello della popolazione generale della stessa età. L’importanza, quindi, della prevenzione del disagio psicologico e di un valido supporto alla loro crescita assume una rilevanza particolare nel caso di adolescenti che si confrontano con una restrizione della propria libertà personale. I giovani detenuti con problematiche emotive sono molto dipendenti da relazioni supportive con il personale dell’Istituto Penitenziario, che a vario titolo e con diversi ruoli, entra a far parte del loro progetto di sviluppo della loro identità e del più ampio percorso di rieducazione e reinserimento ad una vita diversa e più adattiva. L’apporto psicologico-clinico si inserisce nel contesto detentivo minorile quale intervento non solo a livello di prevenzione, ma anche nell’individuazione di disagi adolescenziali, preesistenti alla messa in atto del reato e rappresenta una straordinaria opportunità per una presa in carico di eventuali problematiche psicopatologiche dell’adolescente. Il comportamento oppositivo-provocatorio, la rissa, l’aggressione, l’autolesionismo, i tentati suicidi, frequenti all’interno di un carcere minorile, possono essere considerati un segnale di disagio psicologico; si tratta di giovani, che molto spesso non hanno validi riferimenti esterni, soprattutto all’interno della famiglia, quasi sempre anch’essa portatrice di disagio e multiproblematica. Il supporto psicologico può aiutare l’adolescente a riprendere il suo percorso di sviluppo, offrendogli modelli relazionali e comportamentali più adattivi, alternativi a quelli disfunzionali, affinché possa riconoscersi in un’identità altra rispetto a quella deviante. Considerando la peculiarità della fase adolescenziale, l’esperienza detentiva può acquisire il suo vero valore solo se il percorso “punitivo” aiuta il giovane ad essere rieducato e risocializzato, rendendolo consapevole della gravità del reato commesso ma, soprattutto, più responsabile verso sé e la propria vita. Tale esperienza sembra essere l’occasione per l’adolescente deviante di riconsiderare le proprie scelte e riattivare un processo di ricerca identitaria, rimettendo in discussione e ristrutturando la propria identità interpersonale. Ciò è un elemento estremamente importante in un momento in cui si rende necessario interrompere una spirale di condotte devianti e di legami con amici, che supportano tali condotte, al fine di stabilire una nuova rete relazionale, basata su norme e valori non improntati a comportamenti antisociali. In tal senso, il lavoro clinico può rappresentare un importante fattore protettivo per l’adolescente, soprattutto se inserito in una dimensione di équipe interprofessionale, integrato agli altri interventi educativo-formativi dei diversi attori coinvolti (Giudici, operatori interni e esterni all’Istituzione Penitenziaria), contribuendo al suo complessivo progetto di cambiamento. L’intervento psicologico assume, quindi, un ruolo attivo in termini comunicativi, elaborando domande e azioni dei diversi attori coinvolti, mantenendo sempre prevalente l’obiettivo di valorizzare il percorso detentivo dell’adolescente in funzione del cambiamento e dello sviluppo di una sua identità positiva, non deviante.

Dott.ssa Rita Baggiossi, Psicologa, Servizio Psicologia UFSMIA, Istituto Penale Minorile (IPM) “Meucci”, Firenze

IMG_3593

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *